
30 Oct Covid e diritto del lavoro
L’attuale crisi sanitaria ha inevitabilmente inciso sul lavoro di migliaia di persone, che hanno visto vacillare la loro occupazione.
In parallelo con la quarantena che tutti abbiamo subìto, il Governo si è apprestato a tutelare le categorie più deboli come i lavoratori subordinati.
Con l’art. 46 del decreto Cura Italia -n. 18/2020-, integrato e modificato dall’art. 80 del decreto Rilancio -n. 34/2020-, si è, infatti, disposto il divieto di licenziamento a decorrere dal 17 marzo e fino al 17 agosto 2020, ed in particolare si è fatto divieto di licenziamento collettivo, e di licenziamento per giustificato motivo oggettivo con sospensione di tutte le procedure pendenti già in corso alla data del 23.02.2020.
L’art. 14 del D.L. n. 104/2020 ha prorogato a far data dal 15 agosto 2020 i divieti di cui sopra mitigandone la rigidità ovvero prevedendo che a certe condizioni i datori di lavoro avrebbero potuto non rispettarlo.
In particolare, per non rientrare nel divieto, i datori di lavoro devono aver integralmente fruito delle 18 settimane complessive, calcolate dal 13.07.2020 al 331.12.2020, relative ai trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19; oppure devono aver integralmente fruito dei 4 mesi di esonero dal versamento dei contributi previdenziali.
Appare chiaro che il divieto di licenziamento non ha la stessa durata per tutti i lavoratori, ma è legato alle scelte compiute dal ddl per far fronte all’emergenza sanitaria-economica.
Inoltre, il D.L. n. 104/2020 introduce un elenco di casi per cui il datore di lavoro può legittimamente recedere, a prescindere dalle misure di cui ha usufruito.
Nello specifico, si tratta di:
- licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività, con messa in liquidazione della società senza alcuna continuazione, anche parziale, dell’attività;
- licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione.
- nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo;
Casi di esclusione dal divieto di licenziamento
Fermo restando che restano validi i recessi perfezionati prima del 17 marzo 2020, non soggiacciono al divieto di licenziamento sopra illustrato:
· il licenziamento disciplinare, per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. Trattasi di recessi che richiedono il rigoroso rispetto dell’iter disciplinare previsto dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970);
· il licenziamento per raggiungimento del limite massimo d’età per la fruizione della pensione di vecchiaia;
· il licenziamento per superamento del periodo di comporto;
· il licenziamento dei dirigenti. La categoria dirigenziale è infatti esclusa dall’applicazione della disciplina ordinaria dei licenziamenti individuali;
· il licenziamento durante o al termine del periodo di prova. L’art. 2096 del c.c. prevede infatti la possibilità che entrambe le parti, sia alla scadenza del periodo di prova pattuito che durante il medesimo, recedano liberamente, senza che siano necessari la forma scritta, il preavviso o un’indennità;
· il licenziamento dei collaboratori domestici che, in virtù del vincolo fiduciario con il datore di lavoro, è soggetto al regime di libera recidibilità;
· la cessazione del rapporto di lavoro dei collaboratori coordinati e continuativi, in quanto l’ambito di applicazione del divieto in esame è limitato ai soli rapporti di lavoro subordinato;
· la risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo. Oltre tutto, ai sensi dell’art. 2, comma 4 del D.Lgs. n. 148/2015, alla ripresa dell’attività lavorativa a seguito di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro, il periodo di apprendistato è prorogato in misura equivalente all’ammontare delle ore di integrazione salariale fruite.
E se il licenziamento avviene lo stesso?
Il decreto Rilancio aveva in prima battuta introdotto la possibilità di revocare il recesso per il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo tra il 23 febbraio 2020 e il 17 marzo 2020, avesse proceduto a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo; la revoca del licenziamento era possibile solo se conseguentemente si procedeva con la richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale. In tal caso, il rapporto di lavoro si intendeva ripristinato senza soluzione di continuità.
Il D.L. n. 104/2020, all’art. 14 comma 4, ha esteso la possibilità di revoca a qualunque licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nell’anno 2020 e di conseguenza non solo tra febbraio e marzo 2020.
Qualora il datore di lavoro non revochi il licenziamento intimato, il recesso è nullo in quanto attivato in violazione di una norma di legge.
Tuttavia, l’INPS ha chiarito che il lavoratore ha diritto in ogni caso a percepire la NASpI, cioè il trattamento di sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria, con riserva per l’INPS di ripetizione di quanto pagato nell’ipotesi di reintegro del lavoratore nella sua occupazione.
Ci aspetta di comprendere cosa accadrà dopo la fine di queste misure, di sicuro un minimo contenitive, ma altrettanto certamente non risolutive di una piaga economica che non si vedeva dal secondo dopoguerra.
Autore
Avv. Francesca Oliosi
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